Il ponte di Genova e l’autostrada Palermo-Catania: quando l’Italia dà ragione a Feltri

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Sono contento per Genova, lo giuro. Lo sarei stato anche per Oristano o Campobasso, perché non è di geografia che stiamo parlando e una città vale l’altra. Uno vale uno, direbbero i penultimi ammaliatori del popolo italiano.

Genova

NOI ITALIANI SIAMO INFERIORI…

Sono contento per Genova, eppure un po’ mi rode perché è la prova palese che in realtà uno non vale uno. E perché questo Stato che mette insieme sabaudi e padani, papisti e isolani continua a fare figli e figliastri. E diventa esplicitamente lo sponsor dell’incartapecorito direttore di Libero. Quest’Italia che si ferma ben prima di Eboli gira sottobanco a Vittorio Feltri il settebello, anzi l’asso di cuori che è meglio per loro giocare con le carte polentone. Quell’asso di cuori che consente al giornalista più divisivo del Paese di calare il suo poker e vincere la mano. Siamo inferiori, diciamolo a testa bassa e con il massimo carico di vergogna. Chiudiamo la dignità a doppia mandata nell’ultima stanza in fondo a destra, che noi siamo quelli che ci teniamo la principale arteria autostradale di tutta la Regione spezzata, martoriata, sfrangiata in maniera direttamente proporzionale alla frantumazione degli zebedei che ci infliggiamo ogni qualvolta da Palermo dobbiamo andare verso Catania o viceversa. Siamo inferiori perché ci accontentiamo di iccari vuci, tappinare che siamo dei vicoli e dei cortili, capaci di abbaiare alla luna per l’offesa subita, ma che appena dentro nell’antro dalle mura scrostate, sole con la nostra coscienza e con l’uomo bruto, diventiamo sottomesse, banalmente supine, metaforicamente piegate a 90 gradi. Ci meriteremo Feltri fino a quando l’offesa vera ce la infliggeremo da soli perché la democrazia non ammette correzioni, se non quelle di una matita copiativa, mediamente ogni cinque anni, nel chiuso di una cabina, la scheda dentro l’urna. E invece noi equivochiamo, da sempre, e dentro l’urna ci entriamo per intero. Corpo e anima dentro quell’urna che custodisce fede e speranza.

LO STATO NON HA MAI ABBANDONATO GENOVA

Ci accontentiamo e viviamo di carità. Ma sì un bell’applauso alla bretella, in fondo ci fa perdere soltanto una ventina di minuti. E in quell’autostrada ferma agli standard che aveva l’Autosole negli anni ’60 c’è tutta la nostra inferiorità, perché al brutto ci si abitua ed è questo il vero peccato mortale. “Lo Stato non ha mai abbandonato Genova”, lo ha detto Giuseppe Conte, oggi con l’aria meno di circostanza del solito, quanto basta sincero. E’ vero, lo Stato non ha mai abbandonato Genova perché in meno di due anni ha saputo rimarginare quella ferita insopportabile che ha causato morte e spaccato in due una città. Dimostrando che gli appalti delle grandi opere pubbliche si governano, quando si vuole. Scomodando un archistar come Renzo Piano, noblesse oblige. Genova per noi non sarà più l’andamento lento di Paolo Conte, preludio di sogni e suggestioni, ma la firma in calce alla carta dei soprusi.

UN’ITALIA CHE STA SEMPRE PIU’ STRETTA

Io sono contento per Genova, lo giuro, ammiro i suoi figli immensi portatori di poesia. Sergio Endrigo, Bruno Lauzi, Fabrizio De Andrè, Luigi Tenco, Gino Paoli, il già citato Paolo Conte, l’equivalente nostrano della beat generation declinata in chiave esistenzialista, quel gene dell’introspezione che l’Italia non ha mai conosciuto e proprio lì ha messo radici. Mi piace la maglia della Samp, quasi quanto quella rosa del Palermo e adoro l’ardore dei genoani nel campo di battaglia di Marassi. Ma non posso fare a meno di pensare che quell’Italia che platealmente oggi celebra Genova mi sta sempre più stretta.

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