Addio a Mario Corso, rese celebre la filastrocca dell’Inter di HH

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È morto Mariolino Corso, mito di un calcio che non vedremo mai più, una delle leggende di quella all stars che fu l’Inter di Helenio Herrera. Il suo numero 11 era la chiosa perfetta di una squadra costruita come un mosaico talmente perfetto che potè permettersi a lungo il lusso di avere un centravanti (Milani) non di primissima levatura. Corso era la conclusione della più celebre filastrocca del mondo del calcio. Faceva così: Sarti, Burgnich, Facchetti; Bedin, Guarneri, Picchi; Jar, Mazzola, Milani, Suarez e Corso. E attenzione alle pause nella recitazione date dalla punteggiatura, il punto e virgola presuppone uno stacco, la congiunzione finale è il tocco di classe, la licenza poetica che Nicolò Carosio, re delle telecronache e ancor prima padrone del calcio in radio, consegnò alla storia.

corso mario
Mario Corso

LA FILASTROCCA ROSANERO

Filastrocche a Palermo ne conosciamo un’altra: Ferretti, Costantini, De Bellis, Lancini, Giubertoni, Landri; Perucconi, Landoni, Bercellino, Benetti, Nova. Qui di punto e virgola ce ne sta soltanto uno e manca la congiunzione finale perché Nova non era Corso e non meritava la sottolineatura. Di filastrocche nel calcio del dopoguerra se ne contano altre, anche di altissimo livello. Basti pensare al Zoff, Gentile, Cabrini che andava bene sia per la Juve che per la Nazionale. Oppure, quando la numerazione non fu più emblematica dei ruoli e cambiò la maniera di leggere, l’unica che regge il passo è Rossi, Tassotti, Costacurta, Baresi, Maldini, che già nell’esiguo tempo della lettura eri finito in fuorigioco un paio di volte.

SARTORIA E PRET A PORTER

Nell’epoca della lettura a quattro, restando dalle parti di via del Fante io ancora godo con il Guardalben, Zaccardo, Biava, Barzagli, Grosso e so di trovare anche sostenitori del Sirigu, Cassani, Kjaer, Bovo, Balzaretti. Però, diciamolo senza timori di essere tacciati per inguaribili nostalgici, l’efficacia del Sarti, Burgnich, Facchetti è altra roba, è la differenza tra il sartoriale e il pret a porter.

mario corso

LA CUPOLA INTERISTA

In quanto a Corso è stato un immenso contenitore di aneddoti. Lo chiamavano il mancino di Dio, perché all’epoca chi usava solo il piede sinistro era una rarità, figurarsi chi ne faceva arma letale. Con lui fu glorificata la definizione di punizione a foglia morta, quella che scavalca la barriera e finisce in porta con la stessa lentezza e imprevedibilità di traiettoria che disegna una foglia morta quando cade dall’albero. Si narra che la “cupola” dell’Inter (Picchi e Suarez) sosteneva che quella squadra avesse una sola certezza: vittoria sicura se Corso era in giornata.

IL MITO DI MARIOLINO

Esile nella figura, delicato nel tocco, poco avvezzo alla bagarre, proprio per questo non stupisce che lo chiamassero con un diminuitivo/vezzeggiativo, non Mario bensì Mariolino. Merito di Angelo Moratti, il presidentissimo dell’Inter bimondiale, di cui era cocco prediletto, tanto che fra tutti quei campioni Massimo Moratti, il figlio del grande capo, lo elesse a fratello adottivo. Più o meno ciò che avvenne qualche decennio dopo nel rapporto tra il “lider Massimo” e Recoba.

IL NUMERO 11 MASCHERATO

Corso giocava sempre in controtempo per sorprendere gli avversari e scansarsi i calcioni di difensori poco inclini ad ammirare questa altissima espressione di estetica del calcio. Per lui Herrera dovette inventarsi un modulo che introducesse il trequartista, perché Corso questo era, un rifinitore mascherato con il numero 11, la maglia destinata all’ala sinistra. Ma Corso i chilometri che un’ala macinava in una partita li faceva in una stagione. Eppure il calcio di Corso era pura poesia. Eccelso e non divino, anche per colpa di Gianni Rivera che era di un altro pianeta e gli rubò la scena. Buona partita, Mariolino. E se incontri Brera dagliela una manata sul cozzo, che la sua definizione resta un raro esempio di perfidia: “Corso, il participio passato del verbo correre…”

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