Ieri abbiamo assistito alla ripresa del campionato di calcio tedesco, la Bundesliga. Uno spettacolo surreale, per l’atmosfera quasi ovattata, sterilizzata per la mancanza del pubblico. Un male necessario, per evitare rischi di contagio. Dopo la Germania, anche Spagna e Inghilterra ripartiranno, mentre Francia Olanda e Belgio hanno già deciso la chiusura anticipata. Dove si riparte e dove ci si ferma, ma la cosa importante è che si è deciso.
In Italia, invece, no. Da noi si cincischia, si temporeggia, si mettono sempre nuovi paletti ai protocolli sanitari imposti alla Figc, che ha scelto la strada della diplomazia, della mediazione, pur di arrivare alla meta: ricominciare. “Diteci cosa fare e lo faremo”, per sintetizzare le posizioni del governo del calcio rispetto a quelle del governo dello stato. Si ricomincia con gli allenamenti, ma di ripresa del campionato, ipotizzato per il 13 giugno, ancora non c’è certezza.
Ancora ieri il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, ha seminato dubbi, cautela. “Per il campionato di calcio ci vuole qualche garanzia in più, al momento non c’è. Il ministro Spadafora è un ministro responsabile e sta lavorando con attenzione”. Già, il ministro Spadafora, uno che dovrebbe rappresentare e tutelare il mondo dello sport, ma che sembra messo lì per porre problemi, che sembra essere controparte della realtà con cui dovrebbe invece dialogare. Va bene la cautela, la prudenza e la salvaguardia della salute dei giocatori, degli staff. Ma sembra che di tutte queste cose, dei pareri degli esperti, degli scienziati, dei comitati tecnico scientifici, ci si faccia scudo, strumento per non decidere.
Non a caso, i medici sportivi si sono ribellati ai nuovi protocolli che li responsabilizzano oltre l’aspetto sanitario, nel caso di nuove positività tra gli atleti: fermo lo sport, ci si dà alla pratica dello scaricabarile. Tipico della politica italiana. Un passo avanti e due indietro, un ripensamento ogni giorno. E intanto si dà spazio a dubbi, si alimentano le contrarietà interessate di chi da un ritorno sul campo avrebbe tutto da perdere. Così non si va da nessuna parte. Il calcio è una delle principali “industrie” del paese, è stato ripetuto più volte, ma è tra quelle più penalizzate in assoluto. Sono ripartite, seppur a ritmi ridotti, le fabbriche, ma lo sport no.
E nel frattempo si perdono milioni, a centinaia, con la conseguenza che le società rischiano di sparire, a decine. Il calcio a uso e consumo delle televisioni non è il massimo, ne siamo consapevoli, anzi: convinti, senza i tifosi mancano passione, atmosfera, una componente essenziale di questo gioco che è il “dodicesimo uomo in campo”, quello che dagli spalti può dare la spinta a giocatori messi alle strette da avversari più motivati o con più gamba. Ma proprio perché la voce degli introiti dei diritti tv è la principale tra le entrate dei club, e in queste condizioni rischia di venir a mancare, ogni ulteriore rinvio può risultare letale in modo decisivo. Quello che si cancella oggi, non è detto che si possa recuperare domani. Al ministro, al governo, manca questa consapevolezza, evidentemente. Come manca a certi tifosi che espongono striscioni chiedendo lo stop, in nome dei troppi morti provocati dal virus. Non è così facile, non si risolvono con uno striscione i problemi del calcio, che sono anche finanziari. Basta tira e molla, basta gioco del rimpiattino. Riaprire o chiudere, purché decidiate.
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